[oblo_image id=”2″]Con The Savage (La Famiglia Savages) Tamara Jenkins realizza un film sincero e ben strutturato, curandone sia la sceneggiatura che la regia. Il ritmo della narrazione è ben sostenuto e conduce due fratelli, alle prese con l’improvvisa decadenza psichica del padre, attraverso una lenta parabola di maturazione.
Quello che emerge è un legame familiare forte ma pesante e ambiguo, dato che il genitore ha mostrato poca gentilezza nell’educazione dei figli. Ora però si trova immerso in uno stato di demenza, che provoca un repentino capovolgimento dei ruoli. Jon e Wendy si trovano così ad affrontare la vita con il nuovo impegno, che li scuote dal loro torpore e immobilismo, proiettandoli verso un viaggio interiore, alla ricerca di un proprio “stile di vita”. È uno stile che allude alle correnti teatrali, che si fanno metafore della loro vita personale e lavorativa.

I continui riferimenti alla drammaturgia, infatti, diventano il sottotesto di riferimento, come nella scena in cui Jon, durante una lezione, contrappone le caratteristiche della poetica brechtiana a quelle dei testi classici. La ricerca ossessiva della riflessione e del distacco razionale in luogo del coinvolgimento sentimentale sembra coincidere con l’atteggiamento dei due fratelli, troppo irrigiditi nella costruzione professionale di se stessi per occuparsi delle proprie emozioni. Il loro viaggio, quasi iniziatico attraverso la malattia paterna, mette alla prova la loro fragilità, facendo emergere tabù, insicurezze e menzogne. La verità sembra farsi strada, fino alla sua sconvolgente rivelazione, nella scena in cui l’amante di Wendy le dice a chiare lettere della sua paura di farsi una famiglia. Una paura che viene poi rimarcata dalle parole dell’infermiere, il quale riconduce tale impasse al suo trauma infantile: la violenza paterna e l’abbandono materno.

La morte del vecchio Savage scatena il semplice e puntuale cambiamento, anzi lo porta a termine. I due fratelli trovano la forza di affrontare le croniche debolezze, per cercare una mediazione tra la ragione controllata dell’uno e la lasciva istintualità dell’altra. Jon infatti tenta un riavvicinamento con la sua compagna polacca e Wendy decide finalmente di mettere in scena la propria commedia, trovando una rappresentazione oscillante, questo è il commento di Jon, tra realismo magico e naturalismo.
La morte, come ingombrante peso, libera finalmente la vita dal suo fantasma e distrugge l’impaccio dei sensi di colpa così come dei blocchi psicologici.

[oblo_image id=”1″]La Jenkins ci racconta tutto questo con una certa delicatezza, fatta di una leggera e penetrante ironia, mostrando inoltre una solida sensibilità per il dialogo tra immagine e musica. Particolarmente interessante è quella melodia, fatta di chitarra, marimbas e pianoforte, che assomiglia quasi a un brano da carillon. La prima volta che la ascoltiamo è per commentare le strade dell’esotica Sun City, e sortisce una sensazione d’incanto. Successivamente, invece, la ritroviamo con altre due scene di cui assorbe, per un effetto audiovisivo, il climax. Ci trasmette infatti prima un’insidiosa tristezza e poi una dolce malinconia. È il risultato di una sintesi percettiva, che qui esprime la gradualità del mutamento interiore.

Interessanti le citazioni cinematografiche. Tra queste emerge L’angelo azzurro di Josef von Sternberg, ovvero l’anima di quell’espressionismo tedesco con cui The Savage cerca il tema comune della crisi sociale e della soggettività alla deriva. Jon canta addirittura il brano della Dietrich “Ich bin die fesche Lola”, quasi a voler aspirare (anche lui professore come Immanuel Rath) a una bellezza maledetta che possa conturbarlo e ammaliarlo.

Deliziosa, per concludere, è la scena in cui i due fratelli, in piena crisi comunicativa, litigano animatamente e il padre, incapace di reggerne la sofferenza decide di abbassare il volume del suo apparecchio acustico. Il suo sguardo solitario e assopito esprime tutto lo sconforto di un fallimento, quello del suo ruolo educativo, che ormai deflagra in una muta malinconia pseudo-infantile. Il suo silenzio è un atto di decenza e pare l’estremo tentativo di riacquistare dignità agli occhi dei figli, per alleggerirli così dall’incombenza, ormai paralizzante, della memoria.

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