Ronny Jordan, The Antidote

E’ il 1992. Una delle decadi più effervescenti, dinamiche e bizzarre del secolo si è appena conclusa, lasciando in eredità agli anni ’90 un bagaglio di creatività e innovazione germogliato come avanguardia negli 80s e ora pronto – in tutte le sue declinazioni, dall’House alla Techno, dal Trip Hop all’Elettronica – ad assumere i connotati di un fenomeno di massa. Sono gli anni della musica underground: Moby, Bjork, Portishead, Chemical Brothers, Fatboy Slim, Prodigy; ma sono anche gli anni di Incognito, Brand New Heavies, Jamiroquai.

E’ in questo fermento di fine millennio che, trainato dalla visione che artisti come Style Council, Sade, Simply Red, Matt Bianco, Swing Out Sisters, Lisa Stanfield avevano avuto qualche anno prima, dalle periferie delle città di tutto il Regno Unito emerge ed esplode un fenomeno che può essere assurto a chiave di lettura di tutto il costume pop d’autore a cavallo del 2000. Nasce l’Acid Jazz, e per la prima volta dopo decenni di anonimato un figlio legittimo del Jazz torna ai piani alti delle classifiche di vendita e a dominare le rotazioni radiofoniche di mezzo mondo.

Good times ahead, anni di libertà e di sperimentazione. Tra i tanti a capire che il momento è propizio per mischiare le carte in tavola – Fatboy Slim e Jamiroquai in testa – c’è un giovane chitarrista londinese che di britannico, almeno musicalmente parlando, ha davvero ben poco. Cresciuto ascoltando i classici della chitarra Jazz in anni in cui un approccio simile poteva rinvenirsi solo in rari casi di anomalia discografica come “Café Bleu” degli Style Council o “Give Me The Night” di George Benson, Ronny Jordan debutta con un album che si presenta come il cavallo di battaglia di un funambolo su una corda in bilico tra Wes Montgomery e i Public Enemy.

Esce “The Antidote” e, benché qualche purista del genere storca il naso, il Jazz non sarà mai più lo stesso. In pentola ora bolle un ingrediente inedito, che solo fino a qualche anno prima sarebbe stato un sacrilegio aggiungere. Entra in scena una contaminazione prorompente: quella dell’Hip Hop, con i suoi beat campionati, gli scratch, il beatboxing, i bassi “right in your face”, la “ghetto attitude” mescolata all’eleganza e alla sofisticatezza dei fumosi jazz club in cui si fanno le ore piccole ascoltando quartetti che ripropongono in salsa classicissima gli standard intramontabili del genere.

Mai prima di Ronny Jordan l’Hip Hop era stato usato come arrangiamento per accompagnare le composizioni di un jazzista “puro”, di formazione classica. Semmai, prima di “The Antidote”, era in uso l’esatto contrario: erano gli artisti Hip Hop più sofisticati – A Tribe Called Quest, De La Soul, Gang Starr – a campionare parti di vecchi brani Jazz per accompagnare il loro rap.

Con Ronny e il suo antidoto, il Jazz entra nel terzo millennio, pur mantenendo nell’essenza un approccio fedele alle radici della musica dell’élite intellettuale afroamericana. E’ esattamente così che si presenta “So What!”, grido di battaglia dell’album, nonché cover di quell’osannato standard di Miles Davis che inaugurò di fatto la stagione del Jazz modale. Jordan sa bene che il suo “Urban Jazz” – è lui stesso a battezzarlo così – viene dalle strade ma è ancora cosa da “cool cats” ben vestiti e dall’orecchio raffinato, che sorseggiano whisky dopo mezzanotte al bancone del bar dei Jazz club di mezzo mondo. E’ così che nasce “After Hours”, che è una dichiarazione d’intenti sin dal titolo: un groove di drum machine lento e distensivo, un tema di chitarra notturno, pigro e fumoso.

Con una tecnica pulita e fluida e un gusto invidiabile, Ronny Jordan si impone a livello internazionale come uno dei migliori chitarristi della scena Jazz, tanto da indurre una leggenda del calibro di George Benson a confessare in pubblico di essere il suo musicista preferito. Negli anni 2000 il ritmo delle sue uscite discografiche rallenta notevolmente, ma i concerti di Ronny sono sempre sold out, a Londra come a Milano, a New York come a Tokyo, perché – come sostiene lui stesso – “la differenza che corre tra un virtuoso da studio e un grande musicista dal vivo è la stessa che c’è tra un ragazzino ed un uomo”.

La mattina del 14 gennaio il mondo del Jazz si sveglia con una notizia che lascia tutti increduli. A soli 51 anni, Ronny Jordan è scomparso per cause che la famiglia, sconvolta dal dolore della sua perdita, non ha ancora reso pubbliche. Ci lascia così un artista che ha preso parte da protagonista alla “quiet revolution” del Jazz a cavallo del millennio e ha influenzato un’intera generazione di nuovi talenti del crossover tra Jazz e Hip Hop – José James e Robert Glasper tra i tanti.

“The Antidote” non figura nella lista dei migliori 500 album di tutti i tempi stilata da Rolling Stone ma per noi rientra di diritto nella categoria, ed ora che Ronny è scomparso saranno in molti a scoprire un artista che, sebbene mai sottovaluto, avrebbe meritato un’esposizione discografica più consistente, una rivoluzione un po’ meno silenziosa.

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