Promise di Sade
Promise di Sade

“Blue is the colour of the red sky”. Inizia così il canto di Sade Adu su Fear, ballata notturna e vellutata estratta da Promise, album consacratorio dell’artista anglo-nigeriana e della sua banda di jazzisti romanticamente anacronistici e squisitamente contemporanei.

“Blue is the colour she feels inside”. Un blu che permea l’album lungo tutta la tracklist, a cominciare dalla copertina. E’ lo stesso blu che regna sovrano in certi circoli raffinati e demodé della scena musicale londinese da quando, nel 1984 (un anno prima di Promise), Paul Weller fa esordire gli Style Council con quel Café Bleu di gestazione parigina. E’ il blu di una rivoluzione di velluto, che compie l’insperato miracolo di indirizzare una decade smarrita nel sound artificiale, aggressivo e dalle facili derive trash verso atmosfere più intime e ricercate, che evocano notti insonni in abiti da sera nei fumosi bar dove suona il cool jazz. E’ il blue della tradizione musicale afroamericana (quello di John Coltrane, della Blue Note) declinato in forme inedite: sentimento assimilabile – con Sade più che mai – alla saudade brasiliana nel suo trasmettere quella malinconia paradossalmente piacevole e sensuale.

La saudade. Perché Promise è un album dove la tristezza – nell’accezione tradizionale del termine – lascia posto a quella sensazione indescrivibile a parole e inondata di dolcezza disarmante mista a nostalgia che si prova nel tirare le somme dei rapporti personali e delle relazioni di coppia davanti a un bicchiere di vino rosso. E’ la gioia per un amore appena cominciato (Sweetest Taboo) e la ferita che si riapre per uno di vecchia data che non ci ha mai realmente abbandonati (Is It A Crime). E’ l’accettazione di un incantesimo che, una volta infranto, non può riacquisire il suo effetto originario (Never As Good As the First Time e You’re Not The Man); è l’atavica paura dell’abbandono (Fear) e la nostalgia dell’amicizia di una vita distrutta da una scomparsa prematura (Maureen).

Etichettato superficialmente come “muzak” e spesso stroncato per la sua raffinatezza a tratti eterea (come se al buon gusto andassero posti dei paletti), Promise è una raccolta di musiche sussurrate, ma non per questo da relegare a sottofondo per aperitivi. Perché i sospiri che Sade Adu sussurra discretamente alle nostre orecchie con liriche scritte di suo pugno, mentre la band ci inebria di cambi di accordi vellutati e soli di sassofono struggenti, hanno tutti come oggetto l’elaborazione del lutto – nel senso psicologico del termine, ovvero quello di una perdita particolarmente sofferta e che non coincide necessariamente con la morte. Solo così è possibile comprendere quel titolo – “promise”, promessa – che suona come una rassicurazione, un abbraccio; come una promessa, appunto, che quanto di buono abbiamo non scapperà via, non si frantumerà in pezzi e non morirà.

In supporto ad una visione “blu” dell’esistenza, Sade – e qui veniamo al miracolo musicale – ha elaborato una cifra stilistica e un’estetica intimistiche, introspettive, levigate. Lo ha fatto appellandosi al jazz e ricavandone suggestioni che hanno riportato il genere in vetta alle classifiche di vendita dopo anni trascorsi in sordina, relegato a passatempo per musicisti attempati e dandy anacronistici. Con queste suggestioni Sade spacca gli anni ’80, ponendosi a capo del movimento nu cool e prefigurando quegli sviluppi che, con il trip hop, avrebbero sortito lo stesso effetto sugli anni ’90.

Forse, in quel periodo, faceva più effetto quando a rivendicarlo era Paul Weller – che per fondare gli elegantissimi Style Council sciolse i Jam, uno gruppi più identificativi del movimento punk – ma negli anni sarebbe stata Sade ad aggiudicarsi il titolo indiscusso di caposcuola della filosofia del “quiet is the new loud”. Non occorre strillare, marcare oltre ogni immaginazione parti ritmiche che finiscono puntualmente per suonare kitsch e artificiali. Al posto delle divagazioni glam tanto in voga nel decennio delle esagerazioni, l’anglo-nigeriana e i suoi recuperano il timbro vocale di Marvin Gaye, Smokey Robinson (palese il tributo tra le righe in Sweetest Taboo, nel verso “there’s a quiet storm and that is you”) e Nina Simone e le atmosfere notturne e sofisticate del cool jazz – come nella struttura armonica di pezzi quali Fear o Mr. Wrong, ove l’influenza di Chet Baker è decisamente palpabile. Al tutto si aggiungono percussioni arrangiate con il cuore alla madre Africa e la testa alla Detroit degli anni d’oro del soul. Di tanto in tanto – The Sweetest Taboo e Never As Good As The First Time – ci si concedono giri di basso visceralmente funky, in perfetta linea con l’inspirazione stilistica motown.

Sono proprio i pezzi più groovy – aggettivo che negli anni ’80 fa il paio con “radiofonico” – a garantire a Promise un successo commerciale strepitoso, che attraversa la manica e l’oceano, aggiudicandosi ben sedici dischi di platino e totalizzando vendite per oltre sette milioni di copie in tutto il mondo, bissando – senza però riuscire ad eguagliare – il trionfo discografico di Diamond Life, album di esordio dell’83. Se, da un lato, Diamond Life, sfruttando anche l’effetto novità assoluta, è riuscito ad imporsi meglio nelle classifiche per le sue ambientazioni più ottimistiche e quel sound più furbamente 80s, è inequivocabilmente a Promise che occorre rivolgere lo sguardo per individuare il manifesto stilistico della filosofia di Sade, origine delle suggestioni che avrebbero ispirato generazioni di artisti britannici, a partire dai campioni del trip hop – Dido, Portishead, Lamb, Massive Attack, Tricky – per giungere ai fuoriclasse che hanno portato alla ribalta discografica l’hip hop – i Fugees su tutti.

Dal deserto del Sahara ai jazz club newyorkesi, dalle spiagge di Kingston alle periferie di Detroit, la vocazione meticcia e cosmopolita di Sade anticipa la tendenza di tutta la world music dei decenni a venire, contribuendo a strutturare la cultura lounge degli anni 2000. Rolling Stone non ha ritenuto opportuno inserire Promise nella sua lista dei 500 album più belli della storia, ma l’eredità e l’importanza storica di un disco che ha raggiunto le vette delle classifiche pur mettendo in discussione i canoni stessi del suo tempo vanno ben al di là della presenza in un elenco che, troppo spesso, non tiene conto di criteri meno luccicanti e blasonati. Se oggi la nostra idea di eleganza è – o almeno dovrebbe essere – incarnata da un abito da sera sobrio e lineare e non da una felpa con spalline tempestata di paillettes, forse lo dobbiamo anche alla ventata di buon gusto riportata in voga da colei che la rivista Time definì “the queen of cool”.

La sche da tecnica di Promise , l’album di Sade
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