[oblo_image id=”1″] Vasco è approdato anche al cinema. “Questa storia qua”, documentario di Alessandro Paris e Sybille Righetti sulla discussa figura della rockstar italiana è in proiezione nelle sale dal 7 settembre.

Il film è un omaggio al Vasco meno pop, al Vasco raccontato dalla voce dei suoi migliori amici, al Vasco che scende dal palco e ricorda con nostalgia e commozione la sua infanzia e la sua adolescenza negli anni in cui la “vita spericolata” era ancora un sogno lontano di evasione da un piccolo paesino di provincia. Una biografia ben riuscita che non osanna né glorifica Vasco e che anzi, talora, sembra ridimensionarne i meriti, rendendo giustizia a tutti coloro che hanno accompagnato il Blasco durante tutti questi anni di enormi successi e che lo hanno reso il mito che è.

Attraverso foto vecchie e video inediti messi a disposizione dalle famiglie degli amici di Vasco, si rivivono gli anni ‘60-‘70 di Zocca, piccolo paese del modenese oggi meta di pellegrinaggi da parte dei fans, le speranze e le illusioni di un’intera generazione di ragazzi decisi a cambiare vita, a fuggire dai limiti culturali ancorché fisici del piccolo borgo di contadini in cui erano nati. Una fuga dolorosa, rischiosa, piena di ripensamenti e, tuttora, gravida di nostalgia. Vasco non sarebbe mai diventato Vasco restando a Zocca e rilevando l’attività del padre, come invece racconta di aver fatto un suo grande amico, tuttora proprietario di un supermercato, che, intervistato, ammette di non aver avuto il coraggio che ebbe Vasco e di aver scelto la strada più semplice nonostante il suo lavoro non gli sia mai piaciuto. Vasco fu più determinato e scelse la “vita spericolata”. Tuttavia, a far da contraltare all’enorme successo di questa “vita spericolata” cogliamo, dalle parole di Vasco, un filo di nostalgia e di rimpianto per quella vita fatta di persone care e vicine, di affetti genuini, di piccole cose, di feste spensierate in famiglia, di amici d’infanzia, di posti che ci appartengono da sempre come i boschi attorno a Zocca in cui egli trascorse gran parte dei suoi primi anni di vita. Una “vita normale” che Vasco assaggiò solo per poi diventare un mito, con tutti i pro e i contro che questo comporta. “Tornando a Zocca, mi rendo conto che la nostalgia che si prova non è tanto nostalgia per un luogo quanto per un periodo della vita” ammette ad un certo punto del film.

La mamma di Vasco, Novella, racconta dei primi esperimenti del figlio con la chitarra. Racconta di Giovanna, la bambina che Vasco vedeva sempre passare sotto la sua finestra e che ispirò Albachiara, delle prove di canto con la tata, della vittoria ad undici anni al concorso “Usignolo d’oro”, della nascita delle prime band “Little Boys” e poi “Killers”. Nel 1972 l’idea di aprire un locale per giovani, “Punto club” che poi diventerà una discoteca. Nel 1975 la nascita di Punto Radio, emittente dell’apennino tosco-emilianano che trasmetteva da Montombraro, voluta da Vasco e dai suoi più cari amici, tra cui Marco Gherardi e Lucio Serra che scelsero di acquistarla con i risparmi messi da parte per un viaggio in Marocco. Molti dei dj “per scherzo” di Punto Radio divennero poi artisti famosi: oltre a Vasco, Gaetano Curreri degli Stadio, Maurizio Solieri e Massimo Riva, colonne portanti della Steve Rogers Band, il gruppo che ha accompagnato Vasco al successo. Infine, la grande parte che gli amici ebbero nell’incoraggiare Vasco a non arrendersi alle prime sconfitte, Curreri che arrangiò “Jenny” al pianoforte e per primo comprese le potenzialità di Vasco come cantautore. Il tutto narrato dalle voci dei protagonisti, di coloro che vissero quegli anni e che ricordano le enormi difficoltà incontrate. La canzone “Siamo solo noi” nacque a seguito dello scontro generazionale che questa decina di ragazzi sbandati dovettero afforntare con i loro genitori che non vedevano di buon occhio la radio e che la consideravano una perdita di tempo e non un lavoro vero.

Il documentario racconta il Vasco intimo, quello delle sconfitte, delle difficoltà, delle porte chiuse e dei “le faremo sapere”, dei dolori, della droga, dei giorni di carcere per possesso di stupefacenti, dei lutti insuperati per la morte improvvisa del padre a Triste e per quella del grandissimo amico d’infanzia Massimo Riva nel 1999. Un Vasco meno mito e più uomo. Un Vasco dalle mille sfaccettature, dai mille turbamenti, un Vasco che riconosce alle persone che gli sono state vicine una buona parte dei meriti del suo enorme successo. Ma, allo stesso tempo, un Vasco unico, irriducibile. Un Vasco che o si ama o si odia. Un personaggio che emoziona, la cui voce fa scorrere un brivido sulla schiena, i cui testi diventano poesie dei nostri tempi. Per alcuni resterà solo un tossico che farfuglia monosillabi incomprensibili. Per altri è da trent’anni un motivo di vita, il simbolo di una generazione fragile che “non ha più santi né eroi” ma che, durante i concerti negli stadi gremiti, è capace di dar vita ad uno spettacolo grandioso, ad un rito collettivo quasi magico e catartico, ad un’unione profonda in cui ci si riconosce tutti parte di una stessa umanità che soffre e gioisce con cuori diversi ma sulle stesse note. È questa la magia che Vasco sa creare e non “perché”, come lui stesso ammette nel fim, “sia un fenomeno” ma perché sa raccontare, meglio di altri, la nostra vita più o meno maleducata.

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