[oblo_image id=”1″] La morte è stata l’unica cosa normale, quasi banale. La malaria contratta nell’Alto Volta, la mancanza di tempestività delle cure e la fine che arriva esattamente 50 anni fa: 2 Gennaio 1960. Prima e dopo il mito. Fausto Coppi è stato un ideale. Ha sublimato il ciclismo elevandolo ad una dimensione poetica quasi divina, ha vinto tutto ciò che si poteva vincere con un classe ed uno stile che lo hanno reso il personaggio sportivo italiano più amato della storia. Il campione, anzi il Campionissimo, non si descrive solo con i trionfi (5 Giri d’Italia, 2 Tour de France, un mondiale ed una miriade di classiche d’un giorno), con i duelli con Gino Bartali o con le imprese da leggenda. “Un uomo solo al comando, la sua maglia è bianca e blu. Il suo nome è Fausto Coppi” raccontava Mario Ferretti ad un’Italia attaccata alla radio per sentire la cronaca del suo pupillo. La stessa Italia che aveva invaso le strade di Castellania quando venne folgorata dalla notizia della sua morte: ai funerali si attendevano 5.000 persone, ne arrivarono 50.000. La stessa Italia che ora, 50 anni dopo, si ferma per celebrarne il mito scandito dai filmati d’epoca, dalle strade di un piccolo paese che è diventato un museo a cielo aperto, da una fortunata pellicola cinematografica, da una canzone di Gino Paoli. E soprattutto da un affetto immutato nel tempo: le leggende non hanno età alimentate come una fiamma inesauribile dalla passione di chi continua a sognare nel ricordo di ciò che Coppi è stato ed è ancora.

Advertisement