Cultura & culture, riconoscimento, ibridi, identità e politiche etniche. Il caso boliviano
Cultura & culture, riconoscimento, ibridi, identità e politiche etniche. Il caso boliviano

 

Cultura & culture, riconoscimento, ibridi, identità e politiche etniche

Ci sono parole e concetti che usiamo comunemente, che diamo per scontati, ma se poi qualcuno ci chiedesse di spiegarne il significato? Definire per esempio cosa sia una cultura o che cosa determini le identità culturali, è spiazzante: un po’ per la nostra superficialità nel non soffermarci a sufficienza sui termini che impieghiamo e un po’ perché si tratta di concetti che aprono inevitabilmente parentesi tonde, quadre, a volte graffe. Secondo una visione molto generale e semplificatoria, la cultura può essere intesa come insieme di costumi, lingue e religioni che vincola coloro che vi si riconoscono e che la perpetuano usandola.Quante volte abbiamo sentito dire che la nostra società è multiculturale? Se ne è discusso molto, e purtroppo non solo discusso, dell’importanza di trovare un regime di pacifica convivenza pur preservano le diversità. Di questi tempi, il riconoscimento e l’accettazione di ogni nuova cultura suona sempre più come un mantra inquestionabile: preservare, se non esaltare le differenze, pare un imperativo oltre che un segnale di tolleranza e progresso. Il problema è però all’origine, nella concezione stessa di una cultura che questo imperativo implica. Ovviamente non si tratta di negare l’importanza del rispetto reciproco, e soprattutto nella conoscenza del diverso come maniera di superare le paure ataviche legate all’alterità. Restano tuttavia ancora inesplorati alcuni dei limiti impliciti in una visione eccessivamente semplificatrice delle culture che, seppur predicando rispetto e convivenza, le cataloga come unità omogenee e statiche, i cui confini possono essere oggettivamente rintracciati e stabiliti.
L’obiezione non consiste ovviamente nel distinguere tra culture “superiori” e quelle che non meriterebbero di essere riconosciute: non ci sono gerarchie di valori, non c’è una cultura migliore di un’altra. Le critiche alla teoria del riconoscimento e alle sue applicazioni normative si basano sulla considerazione che le culture sono sempre costituite da ibridi, da storie di contaminazione e continue reinvenzioni di miti e tradizioni. Altrettanto importante, e generalmente trascurato, è il potere che la cristallizzazione di definizioni nelle norme che predicano il riconoscimento può avere sul continuo processo di costruzione delle identità collettive. Infatti, mentre la classificazione naturale è di fatto indifferente alla cosa inclassificata, quella sociale non lo è. Se chiamo questo liquido whisky, non fa alcuna differenza per il liquido. Se chiamo pigri i latino-americani,  questa operazione produce una differenza sia nei confronti di quanti interagiscono con loro, sia nei confronti della loro stessa autoimmagine. Per questo potere di comprendere come veniamo riconosciuti (definiti, denominati, classificati), l’identità stessa di chi è soggetto al riconoscimento può mutare nel corso dell’interazione, in maniera più o meno volontaria. 
In un quadro teorico così scivoloso, le politiche identitarie diventano materia ingarbugliata. Un esempio interessante arriva dall’America Latina dove, a partire dagli anni 80, il paradigma che predicava l’assimilazione delle minoranze in una sovra-identitá nazionale è stato progressivamente sostituito da una strategia tesa non solo a riconoscere ma a sostenere politicamente (ed economicamente) alcune minoranze etniche e culturali (i popoli indigeni). L’etnosviluppo, decantato come una grande vittoria da parte di enti internazionali come la Banca Mondiale, in realtà nasconde contraddizioni e incoerenze che stanno emergendo con forza in anni recenti sottoforma di un aumento di conflitti e tensioni tra diversi gruppi sociali. Il caso boliviano è in questo senso paradigmatico. Unico paese del continente in cui la maggioranza della popolazione dichiara di appartemente ad un gruppo etnico e primo ad eleggere un presidente di origine indigena, la Bolivia ha fatto grandi passi avanti in anni recenti per combattere il razzismo e favorire l’inclusione di vasti settori della popolazione che la storia coloniale aveva relegato ai margini della vita politica ed economica. La Bolivia è peró anche un terreno scivoloso per le politiche del riconoscimento. Cosa succede infatti quando i gruppi da riconoscere non sono piú minoranze culturali? Quando occupano importanti spazi di potere e si svincola da quell’aura naïve e primitivista in cui sono stati relegati per decenni? Il riconoscimento non appare piú come un gioco progressista, ma mostra le sue potenti implicazioni performative. La posta in gioco si alza e la competizione per l’accesso a risorse e potere politico, in un paese che resta il piú povero dell’America meridionale, assume le colorate tinte di tradizioni indigene, millenarie o inventate di recente. A ben guardare la Bolivia contemporanea racconta una storia di conquiste, indigeni, lotte per la terra e ingiustizie sociali i cui protagonisti non sono ‘i soliti noti’. Racconta dei rischi di ridurre l’identitá ad un codice binario e la cultura ad una innocqua rubrica di intrattenimento apolitico.

Quest’articolo è stato realizzato grazie alla collaborazione della Dott.ssa Lorenza Fontana (http://siid.group.shef.ac.uk/staff/research-associates/)dello Sheffield Institute for International Development, University of Sheffield (http://siid.group.shef.ac.uk). Per una trattazione più approfondita del tema si rimanda al saggio Identità indotte. L’uso politico del riconoscimento in Bolivia (L.Fontana, D.Sparti, Studi Culturali, 2012) e agli articoli accademici pubblicati nel Journal of Peace Conflict and Development (http://www.bradford.ac.uk/ssis/peace-conflict-and-development/latest-issue/Iss-20-Art-7-Final.pdf) (L.Fontana, 2013) e nella Oxford Department of International Development Working Paper Series (http://www.qeh.ox.ac.uk/publications/wps/wpdetail?jor_id=398) (L.Fontana, 2013)

 

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