[oblo_image id=”1″]E’ proprio vero, esistono piccoli ruoli ma non piccoli attori. Pierfrancesco Favino è arrivato tardi al successo, come spesso capita ai grandi, ma una volta lì, non si è più fermato. Lui è uno dai mille volti, con una faccia “da cinema”, anche se di se stesso dice: Se fossi io a scegliere, con questa faccia non mi farei lavorare. Invece fanno bene a sfruttare il suo virtuosismo. E’ bravo, è di quelli che hanno studiato, prima all’Accademia Silvio D’Amico, poi con Ronconi. La sua è una carriera interessante, tra cinema e tv.

Prossimamente sarà Di Vittorio, il grande sindacalista pugliese in Pane e Libertà, una fiction biografica ambientata nel primo ‘900. Favino non è ancora un mito, ma lasciatelo fare, e forse lo diventerà, perché oltre ad essere un superbo attore, ha anche il piglio dell’uomo profondo. Basta vedere come difende la sua categoria. Lo fa con la passione di chi è anche un po’ arrabbiato con chi non ha ancora capito, o forse lo sa benissimo, ma non gli importa di sottolinearlo, che l’attore fa la differenza. Un film dipende molto da chi lo interpreta, e se cambia la faccia di chi lo fa, il film cambia completamente.

Pier Francesco Favino è persona ironica, e al tempo stesso molto seria. Lo incontriamo in occasione della rassegna I nuovi volti del cinema italiano e quando usciamo da lì, abbiamo netta la sensazione di conoscerlo di più e meglio. Il film con il quale si presenta al pubblico di questa iniziativa è El Alamein di Enzo Monteleone, un film sulla seconda guerra mondiale, su un gruppo di soldati italiani lasciati a se stessi in mezzo al deserto. Un film critico sulla guerra, e sulla sua inutilità, ma anche un film corale, che parla di uomini.

Nella tua filmografia c’è spesso questa coralità, alcuni sono addirittura una sorta di film generazionali, è un caso? Per me è stata una casualità, legata forse al fatto che negli anni scorsi c’è stato proprio un filone di film generazionali e corali prodotti, ma per me è stato un fatto del tutto casuale, non è che ami proprio il genere, insomma.

Questo ciclo di incontri è dedicato ai volti nuovi del cinema italiano. Tu hai lavorato con molti di loro, credi che ci sia davvero una nuova scuola? Hai centrato un tema a me molto caro. Penso che la cosa nuova del cinema italiano siamo proprio gli attori. Il problema è che in Italia non c’è un cinema che riesca a stargli dietro. Che ne esalti le qualità, che li metta nella giusta luce. In Italia tutto gira intorno al regista, a quello che lui vuole dire, ma spesso ci si dimentica che a dirlo poi sono le facce degli attori. Prendiamo Bellocchio, che io ritengo sia ancora il più moderno regista italiano, uno dei pochi che fa un cinema vero, io ho amato molto “L’ora di religione”, film nel quale Bellocchio ha detto tanto, ma c’è molto, moltissimo, di quello che ha voluto dire Castellitto.

Tu sei uno che anche quando reciti in piccoli ruoli, aggiungi sempre qualcosa al film, le tue sono spesso delle chicche. La definizione che si può essere grandi attori ancherecitando in piccoli ruoli nel tuo caso è davvero azzeccata. Io credo agli incontri, ed amo molto questo mestiere, e se lo amo lo devo a chi mi ha fatto scegliere di innamorarmene. L’intensità e la bravura di un attore non si misurano nei minuti o nel numero di scene che recita. Tu sei il veicolo attraverso il quale deve passare una emozione, non importa quanto il tuo ruolo sia centrale nel film. 

Sei romano, ma spesso nei ruoli che interpreti ti cimenti con i dialetti, e lo fai molto bene, da dove ti deriva questa abilità? Il dialetto non è un virtuosismo, anche se spesso lo si interpreta come tale. Per me è molto di più. Io credo che ognuno di noi si porti appresso le proprie radici. Quando guardo una persona,vedo i suoi occhi, il suo viso, e poi immediatamente come parla. Per me un modo di parlare è un modo di essere, di pensare, e credo molto alle differenze fra le persone, non siamo assolutamente tutti uguali. Anzi.

In televisione sei stato Bartali, prossimamente sarai Di Vittorio… tu non sei fra quelli che snobbano la Tv. Assolutamente no. La TV non è solo veline e pianti. Io non credo alla Tv come antagonista del cinema, anzi, è il cinema che deve darsi da fare di più e fare cose migliori. Per esempio in Tv si riescono a fare film su grandi personaggi, come Bartali appunto o Di Vittorio, al cinema non si fa più… Una volta sì, Gian Maria Volontè lo ha fatto egregiamente, ora nessuno osa più farlo, si fanno film sulle canzoni, storie sempre minimaliste. E’ difficile vedere il Cinema con la C maiuscola.

A proposito di Cinema non minimalista, Romanzo Criminale come lo definisci? Ecco Romanzo Criminale è il cinema che fa il cinema. Un grande film, io poi gli devo molto: la popolarità, i premi. Ma al di là del fatto mio personale, credo sia davvero un grande film, anche perché c’è dietro, appunto, una grande storia da raccontare.

Hai lavorato con molti registi, prima alludevi al fatto che in Italia tutto ruota intorno a loro, a volte a torto. Chi ci metti fra quelli davvero bravi? Tutti quelli che ti “dirigono” davvero. Quelli che ti mettono nelle condizioni di fare bene il tuo mestiere, che ti prendono in considerazione, che ascoltano il tuo parere. Placido, per esempio, proprio perché è un attore, sa bene cosa si può “tirare” fuori da una persona. E’ uno che ti fa fare bene quello che sai fare. Poi uno davvero grande è Amelio. Ricordo ancora quando mi disse: “Davanti alla macchina da presa sei solo, sei tu che devi fare il film”. Ecco, Amelio è uno che sa che l’attore è il tramite delle emozioni. Io quando recito devo essere la porta che ti fa entrare dentro alla storia, nel film. Se riesco ad aprire quella porta, allora ho fatto bene il mio mestiere. Se non ci sono riuscito… beh la colpa non è del regista.

Hai mai pensato di dirigere un film, o di scrivere una sceneggiatura? Ho molte idee ma non so scrivere, ognuno ha il suo ruolo. Vorrei trovare un gruppo di persone, ognuno con le proprie abilità, per mettere giù dei progetti, delle idee. Una volta in Italia si lavorava così, il grande cinema italiano è frutto di queste collaborazioni. C’erano grandi sceneggiatori, attori e registi, ognuno faceva la sua parte per mettersi al servizio di un opera. Oggi molti si sentono troppo “tutto”: autore, attore e regista tutto insieme. Mi dispiace, ma non sono d’accordo.

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