Le ferie di Licu” (Italia 2006). 93 minuti di pellicola del regista valtellinese Vittorio Moroni sul microcosmo di un giovane immigrato bengalese, tifoso della Roma, del modo di vita all’occidentale e sposo secondo le regole della sua tradizione. Un lavoro lungo due anni e otto mesi sempre con la macchina da presa puntata contro i protagonisti perfetti sconosciuti e utilizzata al posto della penna dello sceneggiatore “come fosse un quaderno d’appunti”. Ma, soprattutto, rappresentante a pieno titolo di un nuovo genere: quello del cinema dimezzato. Del cinema prodotto, ma non distribuito. Muto, d’immagini.

E Al Martedì d’essai, evento castrovillarese messo su dall’associazione culturale Diaframmi, il lavoro di Moroni è stato voluto come pellicola clou dell’intera programmazione (tutti i martedì dal 6/11 al 11/12). Sei appuntamenti con un cinema diverso da quello solito che acquistiamo, in massa, a fine settimana dopo aver fatto la spesa in qualche grosso centro commerciale.

Finito lo spettacolo – a cui ha preso parte attiva lo stesso autore – una piccola e inaspettata sorpresa attende tutti all’uscita: un frammento della sua pellicola. D’istinto, viene di guardarlo contro luce per sapere quale frazione di secondo del film ti è toccato. Una bella trovata, che non t’aspetti a queste latitudini. Ci avviciniamo nuovamente. Lui pensa che vogliamo ritentare la fortuna con un fotogramma migliore. E, invece, la richiesta è un’altra. Qualche domanda che sarebbe stato meglio rivolgergli prima, al caldo della sala. Ma fa lo stesso.

[oblo_image id=”1″] Wim Wenders ha girato “Nel corso del tempo” scrivendo la sceneggiatura man mano che girava. Lei è andato oltre con “Le ferie di Licu”: ha fatto a meno della stessa sceneggiatura e si è lasciato guidare dall’intuito. Ė così?
“Ė assolutamente così. Il procedimento usato è stato quello di girare. Poi, ad un certo punto, di montare. Nel montaggio cercavamo d’immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, formulando delle ipotesi. Normalmente, poi, queste nostre ipotesi venivano smentite dalla realtà che, nel frattempo, aveva preso un’altra direzione. E quindi ritornavamo indietro e cambiavamo il montaggio appena ultimato. E così via per tanto tempo”.

Due anni e otto mesi di riprese. Un tempo lungo per girare qualsiasi film. Com’è riuscito a far accettare ai protagonisti – che non sono attori professionisti – la presenza quasi quotidiana dell’obiettivo? E poi lasciare accesa la telecamera per tutto questo tempo non inibisce gli stessi protagonisti, rischiando di falsare l’intento documentaristico dell’intero lavoro?
“Ho la sensazione che durante questo rapporto che si è creato tra noi (tra la troupe e i protagonisti, ndr), il fattore tempo sia stato quello che ci ha consentito di avere da parte loro una genuinità. Ovviamente, il fatto che la telecamera fosse lì in qualche modo cambiava un po’ le cose. Però il fatto che noi fossimo per così tanto tempo con loro, creava una specie di consuetudine che faceva si che la macchina da presa fosse – non dico dimenticata – ma almeno minimizzata, sì.

[oblo_image id=”2″]A quanto pare, non è né neorealismo alla Rossellini, né reality. Ė qualcosa di diverso. Di nuovo?
“Si. In un certo senso si. Credo sia una cosa molto diversa, per esempio, dal Grande Fratello. Anzi, in un certo senso, è opposta a quella. Nel G. F. accade che le persone vengono astratte dalle loro realtà e collocate in un luogo neutro senza vita quotidiana. Qui, invece, accade che siamo noi ad andare dove c’è la loro vita. Sanno chi siamo, ci parlano, ci frequentano. Lì, nel reality, non c’è rapporto con chi sta facendo le riprese”.

Ė tardi, mezzanotte passata e il freddo si fa pungente anche per il cineasta di Bormio. Zaino in spalla e berretto in testa, deve ripartire subito per Isernia. Lo aspetta la continuazione del suo Licu tour inaugurato quest’estate e che terminerà per Natale. Il vincitore del Sacher d’Argento al festival di Nanni Moretti nel 1997 va, infatti, dappertutto con le pizze (così vengono chiamate dagli addetti ai lavori i rulli delle pellicole) del film sottobraccio: piccoli centri, associazioni, scuole. E lo fa spostandosi con un vecchio camper verde.

Una trovata geniale (e indispensabile allo stesso tempo) la sua e di chi lavora con lui che comincia a dare anche buoni risultati in termini d’incassi e di popolarità. Azionariato e autodistribuzione sono le paroline magiche. La proprietà del film è stata divisa in tanti piccoli pezzetti e assegnata a chi vi ha investito. E il “pre-acquisto” da parte di un certo numero di potenziali spettatori del biglietto (su internet o con altre modalità fai-da-te). In questo modo si garantisce all’esercente l’incasso, altrimenti mai e poi mai si arrischierebbe a inserire nella sua programmazione una pellicola non commerciale.

Per informazioni:
www.leferiedilicu.it
www.diaframmi.it
www.atomiccafe.it

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