[oblo_image id=”1″] Brasile, Italia, poi ancora Brasile e nuovamente Italia. Viaggio doppio di andata e ritorno, nel mezzo tanti gol per gioire, unlampo per griffare una Coppa Campioni, le favelas nel cuore, l’odio per la nebbia, due mogli, sette figli da amare e mantenere, di sponda la camorra e la droga. Jorge dos Santos Filho, per tutti più semplicemente Juary. Arriva in Italia a ventun anni, accompagnato da buone referenze e da parecchi dubbi su un fisico troppo mingherlino. In un’intervista ai confini dell’assurdo, il presidente dell’Avellino racconta così il suo acquisto:

Presidente Sibilia: “Fummo andati in Brasile e comprammo Juary”
Giornalista: “Siamo, presidente…siamo”
Presidente Sibilia, visibilmente contrariato: “Va beh..dicevo. Fummo andati in Brasile e comprammo Juary”
Giornalista: “Siamo..”
Presidente Sibilia, sbottando: “Ma perché? Sei venuto pure tu?”

Non è che la reazione del giocatore alla notizia del cambio di maglia sia più convincente.
Manager: “Juary, è tutto fatto. Sei un giocatore dell’Avellino”
Juary: “Avellino? E dove cazzo sta Avellino?”

Due mondi che devono ancora conoscersi ma che impareranno ad amarsi. In Irpinia, Juary ci mette poco a diventare il beniamino dei tifosi. Gioca con una leggerezza tutta carioca, si diverte e fa divertire. E soprattutto segna. Dopo ogni gol si avvicina a bordo campo ed improvvisa una danza intorno alla bandierina: è lui ad essere il capostipite dell’esultanza eccentrica. Quelli che verranno dopo si limiteranno a scimmiottare perdendo la spontaneità del numero nove in maglia biancoverde. Ma non è soltanto un personaggio di folklore, sa trascinare la squadra ed è con le prestazioni sul campo che si merita le attenzioni dei grandi club. Juary è ancora giovane e cede alle lusinghe dell’Inter di Beccalossi e Altobelli, di Gerd Muller e Oriali. Si rivelerà un errore. Coi nerazzurri Juary non può ricevere le stesse attenzioni di Avellino, viene isolato dallo spogliatoio ed inizia a odiare nebbia, pioggia e smog di Milano. Appena due gol in una stagione disgraziata, mai sbocciata, triste come il fado che segna l’inizio di una parabola discendente. Il ritorno in provincia non basta a rilanciare le quotazioni: finisce male l’esperienza ad Ascoli, a Cremona va anche peggio dopo viene martoriato anche da problemi fisici. Viene dato per finito, la classica meteora destinata a recitare in qualche teatro di periferia dopo aver assaggiato i palcoscenici più prestigiosi. Poi l’intuizione: via dall’Italia per andare al Porto. Non è il titolare ma quando entra nella partita che per un calciatore vale una carriera, entra nella storia. E’ suo il gol che regala la prima Coppa Campioni ai Dragões: un tocco sotto misura di chi si fa trovare pronto ad un appuntamento atteso per una vita. Una fiammata isolata: è vero, ma basta e avanza. Poi il ritorno in Brasile per dare qualche calcio al pallone prima di appendere le scarpe al chiodo e capire che non è mai troppo tardi per inseguire nuovi sogni. Viene inserito in un programma del distretto di San Paolo, il Profeto Futebal Comunitario: agli ex campioni si chiede di andare nei vicoli più malfamati a reclutare ragazzi, nei rioni più poveri per offrire loro una possibilità alternativa alla criminalità. Non si tratta di limitarsi a fare qualche foto, indossare una maglietta o regalare qualche frase di circostanza come è uso per i divi del pallone quando vogliono fare solidarietà a gettone consigliati a dovere dagli sponsor. Juary come gli altri educatori “speciali”, conduce l’allenamento, prepara da mangiare e completa un giro nelle scuole per controllare che i suoi pupilli non saltino le lezioni. Perché anche in una nazione come il Brasile dove il calcio assomiglia ad una religione, il pallone non può risolvere la vita a milioni di bambini. I libri sì e allora il calcio diventa lo strumento e non il fine. Juary lo considera il suo capolavoro, da assaporare ripensando a tutte le parole, le lettere, le strette di mano di chi anche grazie a lui non ha dovuto maledire come una condanna le proprie origini. Terminato il lavoro è tornato in Italia per allenare, stesso itinerario seguito da calciatore. Prima il Sud per poi risalire verso il Nord ma con la saudade delle sue favelas che cresce. Per ora però deve ancora fermarsi per strada a mimare la sua esultanza intorno alla bandierina a chi gli ricorda quella danza che lo ha reso celebre. Il calcio è allegria, le cose serie sono altre. Lo sa anche lui che da una vita corre dietro ad un pallone

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