[oblo_image id=”1″] “Signore, fammi vincere questo game e prometto che poi non toccherò più una racchetta”. Era il fioretto di Goran Ivanisevic durante l’ultimo cambio di campo nella finale della più incredibile delle 125 edizioni di Wimbledon. 8 Luglio 2001, esattamente 10 anni fa. Ivanisevic non doveva neanche partecipare: era precipitato alla 126esima posizione in classifica mondiale, soffriva di dolori insistenti alla schiena e sembrava più svogliato del solito. E già di solito, la voglia di faticare in allenamento non era una gradita compagna.

Non aveva mai vinto un torneo dello Slam, pur essendo arrivato per tre volte in finale a Londra. Aveva perso contro Sampras e Agassi, non gente qualunque, ma ormai il verdetto sembrava emesso: non avrebbe mai alzato al cielo quel trofeo, l’unico che desiderava fin dalla prima volta che aveva impugnato una racchetta. Era un folle: la sua fortuna era di esserne a conoscenza. Un cavallo pazzo impossibile da domare. Lo diceva: «Ogni volta che sono in difficoltà, c’è qualcuno che mi dice di stare calmo, di respirare. Io respiro, respiro, respiro. Ma non funziona». Ogni sua partita diventava un evento, una sfida: «Quando gioco ho sempre cinque avversari: il tizio con una racchetta che sta dall’altra parte della rete,l’arbitro, la folla, i raccattapalle e me stesso. Poi vi sorprendete che la mia mente cominci a vagare…» Passi per gli altri, ma battere se stessi a volte era impossibile. Pochi mesi prima di quel Wimbledon leggendario, era riuscito nell’impresa di ritirarsi per aver finito le racchette. A Brighton contro uno sconosciuto coreano le aveva rotte tutte. Una dopo l’altra, in uno scatto d’ira prolungato.

Nel 2011 aveva trent’anni e lo davano per finito. Poi però gli organizzatori avevano pensato di concedergli una wild car per il suo passato, per il ricordo dei suoi ace, per il suo saper essere personaggio con quegli occhi così spiritati da apparire irreali. I bookmaker evitavano di quotarlo: doveva essere una semplice apparizione che si sarebbe dileguata al termine del primo turno. Ed invece era arrivato a quel cambio di campo, prima di servire per il match. Stanco, stremato, spinto solo dall’adrenalina di chi sta per realizzare il sogno della vita quando ormai non ci credeva più. La storia ci dice come è finita la favola londinese del miglior tennista che la Croazia abbia mai avuto: Ivanisevic ha vinto quel game benedicendo e maledicendo il cielo a punti alternati. Poi però non è riuscito mantenere il fioretto. Ha provato a continuare a giocare e seguendo l’anatema è stato falcidiato dagli infortuni. Se lui non era in grado di smettere da solo, il fato ha deciso per lui. Ma come dice Goran: «Non posso essere arrabbiato per questo. Me l’ero meritato, ma ne è valsa la pena».

E adesso che ha 40 anni è sempre lo stesso: in fondo, se vedi negli occhi di un adulto qualcosa di un bambino, puoi fidarti che hai di fronte qualcuno che vale la pena di conoscere. Genio e sregolatezza, un gigante con l’animo di un fanciullo, un istrione che ha saputo infiammare come pochi. E che oggi, ripensando alla sua impresa, avrà la stessa espressione beffarda di quando sfidava il mondo dicendo: “Ho comunque ragione io”. Forse, aveva ragione per davvero..

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