Sergio Cofferati, Gianmario Anselmi, Ezio Raimondi, Andrea Menetti hanno presentato ieri 18 dicembre, a Bologna, nella biblioteca comunale di Sala Borsa, Antonio Gramsci lettore, ovvero un uomo politico, solidale, e completo nella sua opera.

Interprete attualissimo della realtà, lui questa realtà, negli anni delle Lettere dal carcere, l’ha vista solo nella sua mente. Eppure così acuta che non perde il senso tutt’oggi, a 70 anni dalla morte.

Il sindaco di Bologna ha salutato l’iniziativa con estremo interesse. Gramsci è personaggio che rischia di essere dimenticato, o osservato con distrazione. Mentre in altre parti del mondo è oggetto di importanti studi. Data la straordinaria attualità di pensiero, è necessario che si riprendano i suoi scritti, e li si contestualizzi al nostro tempo. Perché l’immagine del filosofo comunista è fatta di stereotipi culturali. Ma Gramsci stesso diceva che sono i pappagalli che risolvono i problemi con formule stereotipate.

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. (11 febbraio 1917)

E’ il richiamo all’engagement, che avrà vivo corso nel Novecento europeo. Ma che resta attuale oggi, dove il cittadino non deve essere più parte della città, ma “di” parte, partigiano: prendere posizione e agire. Certo, un discorso del genere è parte del lettore-interprete del suo tempo, in connessione con la società e la politica.

Tuttavia, questa connessione non rimane lettera morta nel presente: L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità. (…) Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa (11 febbraio 1917)

Il pensiero di Raimondi, dialogando con Menetti, va alla restituzione del pensiero gramsciano alla sua umanità personale: certe condizioni dell’Italia non sono ancora venute meno. “Alla fine restano i motivi essenziali della vita”, così parlava Gramsci, ed è per questo che egli è uno sconfitto che resta combattente per sempre: un destino che è il segno della profonda libertà.

In realtà, lo scibile gramsciano non è ancora compreso pienamente. La grandezza, secondo Raimondi, è nel pensiero processuale: un sistema di relazioni rimosse (quindi non più visibili) o non ancora attuate (ancora da scoprire).

Leggere questo autore è continuare a vivere: il senso dell’individuo è estremamente intenso, anche nel dialogare con il testo. La lettura così diventa momento di cultura in senso ampio, per il popolo. Ma non per la massa, che esclude come termine l’individuo. E’ il punto cruciale di un filosofo della prassi, che fa della politica, e nella sua pratica – nel senso più ampio – l’unità della sua opera.

D’altronde Gramsci non era sicuro di essere in prigione. La prigione distrugge il pensiero, lo opprime, mentre il suo si approfondiva continuamente. L’unica sua paura – e quanti non sono in carcere oggi? – era di essere soverchiato dalla routine carceraria. I prigionieri, a quel punto, sono trasformati in modo terribile.

E c’era un altro tipo di prigione: quella in cui sei tagliato fuori dal mondo e dagli affetti. I paragoni che si potrebbero fare, tutt’oggi, sono molteplici.

Il Novecento è finito, ma il ragionare in grande va sempre rivisto, sempre studiato, per capire le radici della nostra società.

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