L’Universo continua a reggersi perché da qualche parte c’è qualcuno che sta raccontando una storia. Finché questo succederà, il mondo non potrà finire”. Un’idea semplice, vecchia come la Storia, quella con la S maiuscola, fatta da sempre di minuscole storie. L’essenza del cinema, d’altra parte. Dove, come in ogni altro campo, chi vuole fare il rivoluzionario spesso deve cercare nel passato.

Terry Gilliam di questo è sempre stato un maestro. Grandioso raccontatore di storie, visionario architetto dell’immaginario, questo arzillo signore di mezza età (a discapito delle improbabili giacche che ancora porta in giro) dava scalpore sulle scene internazionali già una quarantina di anni fa con i Monthy Python, dissacratori di una società inglese che in quel periodo cercava di scrollarsi di dosso la propria proverbiale ipocrisia. Tutto grazie al sogno, allo spiazzamento, alla visione. Una lezione trascinata in blocco nel suo lavoro da regista, con capolavori visionari come “Brazil” o “L’esercito delle 12 scimmie”.

[oblo_image id=”1″]Gilliam sbarca al Festival di Roma con un film, “The Imaginarium of Doctor Parnassus”, di cui si è parlato molto soprattutto per un motivo: la morte di Heath Ledger. Ucciso da un cocktail di farmaci il 22 gennaio del 2008 nel bel mezzo della lavorazione della pellicola. Una tragedia che ha tolto a Gilliam l’interprete perfetto. E non solo, visto che a sentire le sue dichiarazioni in conferenza stampa, il contributo di Ledger a sceneggiatura e regia era stato fino a quel punto così importante da considerarlo quasi un co-regista. Tanto che, dopo la sua scomparsa, la produzione ha fatto di tutto pur di portare a compimento il film, riuscendo nell’impresa grazie all’aiuto di tre amici “speciali” di Heath: Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell, che hanno girato le ultime scene destinando il loro compenso alla bambina di Ledger.

Amici, si è detto. Perché di amici Ledger sembra ne avesse davvero tanti, e in tanti si sono offerti. Anche Tom Cruise, che però Gilliam ha rifiutato perché non abbastanza “vicino” a Heath. Di cui il regista tratteggia, sullo schermo e dal vivo, una personalità dotata di un’energia fuori del comune, istrionica, originale. Facendoci capire che, oltre a performance del calibro del Joker del “Cavaliere oscuro”, tutto il mondo del cinema ha perso la possibilità di veder crescere un grande talento della regia. Il grande schermo vive perché esistono ancora persone così. Sognatori che credono che ogni cosa, anche la più immaginifica, sia possibile (magari anche senza l’utilizzo degli allucinogeni, citati da Gilliam come fonte di ispirazione per gli artisti degli anni ’70. C’è da credergli).

Se in effetti Ledger avesse seguito il solco tracciato dalle due ultime opere di Gilliam di cui è stato (non solo) protagonista, i “Fratelli Grimm” e questo “Parnassus”, la capacità visionaria ed espressiva del suo cinema sarebbe stata incredibilmente potente. Del film, si può dire che al di là della forza dell’interpretazione di Heath, c’è un richiamo costante al recupero della fantasia come unica arma nei confronti di un mondo sempre più complesso che ci propone spesso due tipi di scelte, antitetiche: scelte inutili (“non capisco perché debba avere dieci tipi di cappuccino tra cui scegliere”, dice Gilliam, “datemene uno ma che sia buono”) e scelte fondamentali da cui dipende il destino nostro e degli altri. La dannazione o la salvezza dell’anima compresse dentro una scommessa senza fine tra un diavolo tentatore con la maschera blues di Tom Waits (geniale Gilliam quando in conferenza stampa dice “Devil waits for us”…) e l’enigmatico Parnassus, la cui mente è una sorta di tramite per chiunque varchi (volente o nolente) la porta del proprio “Paese delle meraviglie”. Attenzione però: perché dietro lo specchio potrebbero nascondersi sorprese non proprio piacevoli… Un ottimo lavoro, su cui resta un solo dubbio: quanto ha inciso la scomparsa di Ledger, e cos’altro avrebbe potuto aggiungere a una sceneggiatura che prendeva corpo anche con lui. Purtroppo, non lo sapremo mai.

Da segnalare, nella prima domenica del festival, anche la presentazione di Astroboy, lungometraggio ispirato a un famoso cartoon giapponese degli anni ’80 che nell’edizione italiana ha visto tra i doppiatori Silvio Muccino, Carolina Crescentini e il Trio Medusa. Film carino, fatto bene, ma che alla prima visione lascia una perplessità: i bambini presenti in sala non hanno gradito (in blocco). Cartone troppo per adulti (travolti dalla nostalgia) o bambini troppo bombardati da mille immagini da non spalancare la bocca più per nulla, se non per sbadigliare? Ai posteri l’ardua sentenza.

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