Gabriele Salvatores, grazie al suo nuovo film, “Come Dio comanda”, nelle sale dal 12 dicembre tornerà ai successi dei suoi primi film, ne siamo certi, perché la sua ultima fatica è un film forte, ma molto intenso, che ci fa soffrire, ma che si fa amare. Il film è tratto ancora una volta, dopo “Io non ho paura”, da un romanzo di Niccolò Ammaniti, il loro è ormai un sodalizio artistico efficace, forse perché Salvatores riesce a dare un’anima umana ai suoi cupi romanzi. L’attenzione è ancora una volta puntata sul difficile rapporto padre-figlio. E’ la storia di tre persone, che, citando De Andrè, “hanno preso la cattiva strada”. C’è un padre disoccupato, nazista e violento, interpretato da Filippo Timi, un figlio adolescente, tirato su a pane e violenza, e un amico, uno straordinario Elio Germano, un po’ fuori di testa. L’impianto del film è, per ammissione dello stesso Salvatores, Shakesperiano, perché c’è un re-padre; un figlio principe adolescente, un buffone amico di famiglia, un bosco, e soprattutto una tempesta che travolge tutto e dalla quale tutti escono trasformati. E’ un drammatico affresco sociale, ma la concentrazione di Salvatores si concentra soprattutto sulla dimensione quasi ancestrale di questo rapporto padre e figlio. E’ un film che racconta la violenza e la solitudine; volutamente duro, come è dura e difficile la vita delle persone che sono state prese a schiaffi dalla vita, e vivono collocate ai margini della società.

C’è un padre disoccupato e violento che educa il figlio dodicenne a pane e violenza. Un modello educativo assolutamente non condivisibile, però lei lo affronta con molta pietà umana, forse perché questo padre è comunque migliore di molti papà “a modo”? Sì è vero, è detestabile per quello che dice e fa, però è presente e responsabile. Oggi la crisi dei ruoli, soprattutto quella del padre è fortissima, è stata messa in discussione negli anni ’70 ma mi pare che non sia stata sostituita con nulla. Molti sfuggono al ruolo di educatore. Non si può dire a un figlio, “fai quello che vuoi” , come in nome di una presunta libertà, troppi padri fanno. Questo padre dice delle cose che mi dà fastidio persino ripetere, ma gli invidio il senso di amore e di responsabilità.

Lei che tipo di genitore è con i suoi attori? Uso il calcio, che amo molto, come metafora… Faccio molto spogliatoio. Pochi ciak, ma curo molto quello che c’è fuori dal set. Vivo molto insieme a loro durante il film. Poi quando i film girati fuori dalla tua città, diventa particolarmente interessante, perché le tue abitudini scompaiono e ne devi trovare altre, magari insieme alla troupe.

Le ambientazioni di questo film, un Friuli desolato e aspro, non sono affatto decorative, non sono delle cartoline, insomma non stanno lì per caso, ma hanno un ruolo nella storia. Ho scelto con molta attenzione i luoghi, anche perché credo che in qualche modo la natura che ci circonda ci condizioni il carattere. Abitare in luoghi così, ti cambia. Sono posti difficili, dove c’è una solitudine legata anche alla conformazione geografica del posto. Questa storia, per essere raccontata, aveva bisogno di una natura forte, pronta a riprendersi quello che l’uomo gli ha strappato, pronta a rompere gli argini e a travolgere tutto. Così come succede ai protagonisti del film nella notte in cui, si scatenano sia le forze della natura, sia quelle dei sentimenti. Si trasformano, e si riscoprono diversi, cambiati da quella tempesta, che è metafora delle tempeste della vita.

Nel film c’è molta musica, e 35 minuti senza parole, di cui probabilmente si parlerà molto. La musica non è stata scritta a film fatto, ma prima. Volevo farmi influenzare, non usala per vestire meglio il film. I 35 minuti senza parole, sono il momento clou del film, li ho voluti per allontanarmi anche da una idea di televisione…

Il film è girato con molta telecamera a spalla e l’uso di piani sequenza. Perché questa tecnica? Mi piaceva l’idea di andare sui personaggi in maniera intima, seguirli e spiarli. Volevo che recitassero con tutto il corpo, che fossero, il più possibile, reali.

Ci svela un trucco? Come fa a girare film decisamente più belli dei romanzi dai quali sono tratti? Credo che l’unione con Niccolò sia proficua proprio perché lui è diverso da me, così come lo è la sua generazione. Lui è un po’ cinico, io molto meno… Ecco lui ha quello che io non ho, e viceversa. Con “Io non ho paura”, che secondo me è un romanzo molto bello, mi sono detto: speriamo di fare un film altrettanto bello. Qui è diverso, non so se sia più bello il film o il romanzo, perché sono molto diversi fra loro, io diciamo, ne ho preso un pezzo…

Raccontare la vita di chi non è né figo né chic, vuol essere, da parte sua, una sorta di vaccino contro il disprezzo per certe categorie di persone, visto che ultimamente nei film italiani si raccontano troppo spesso i “borghesi” nello loro belle case? Non so se il film funziona come un vaccino… sarebbe bello, ma non credo che un film, da solo, sia in grado di fare questo. Può aiutare a riflette però, ed è certamente uno dei motivi per cui lo abbiamo fatto.

Lei è stato etichettato molti anni fa, come regista generazionale, come quello che raccontava la fuga… I suoi erano film teneri, delicati. Oggi è passato a raccontare storie “forti”. Non sarà che la durezza e la cattiveria alzano l’audience? Un po’ è vero quello che dice, però a me piace molto ridere, ma a un certo punto è successo che non mi è venuto più tanto da ridere! Poi vede, io, al quarto film ho vinto un Oscar, e mi sono chiesto se fosse giusto, se sapevo fare cinema. La mia risposta è stata no, con quattro film non era possibile che lo sapessi già fare, e allora diciamo che ho voluto usare il potere, diciamo pure, che ti dà l’oscar, per fare cose che prima non mi avrebbero mai fatto fare. E’ stata una gara con me stesso. Ma prometto che tornerò presto a fare cose più divertenti. Mi piacerebbe raccontare la vita di tutti i giorni con un sorriso, questo sì. Comunque le storie drammatiche, in realtà, fanno meno audience, però è vero che “lisciano” il tuo pelo di autore!

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