[oblo_image id=”1″] Il ciclismo è fatto di leggende e di maledizioni. E il confine spesso è sottile. Cadel Evans sembrava condannato ad un destino beffardo: avere il Tour come ossessione, arrivare sempre a sfiorarlo senza conquistarlo. Sempre sul podio, mai sul gradino più alto. Stava per entrare a pieno titolo nella categoria degli eterni secondi: quelli che pedalano veloci ma non vincono. Un elite con nomi  romantici come Poulidor, ma dal retrogusto triste. Invece, Evans aveva solo sbagliato la scelta della gara dei sogni. Per anni ha puntato alla Grande Bouckle, il paradiso invece si nascondeva al Mondiale. Non era facile saperlo: nella storia nessun australiano aveva mai agguantato l’iride e le corse di un giorno gli apparivano indigeste. Invece sul percorso di Mendrisio, Cadel Evans ha vinto come fanno i grandi. Ha atteso che i favoriti come gli spagnoli, gli azzurri e lo svizzero Cancellara si sfogassero, per poi scagliare un colpo secco, letale. Uno scatto d’autore, chirurgico per precisione e tempismo che ha domato il resto del gruppo. Un trionfo meritato: ha vinto il più forte. Ha poco da rimproversarsi la nostra nazionale. Ha lavorato tanto ma mancava la punta. Cunego non era brillante, gli altri non avevano il passo per inseguire sogni di gloria. Gli spagnoli si sono impantanati sull’equivoco Valverde: uno che può correre in un paese sì e in un altro no, perchè considerato dopato in base alla posizione che occupa sulla carta geografica. Cancellara ha dato spettacolo con le sue sfuriate, ma vincere una gara in linea con una salita impegnativa pesando 80 kg è impresa proibitiva. E allora che inizi la festa di Cadel Evans. Uno che ha scoperto il gusto di essere vincente a 32 anni. Per dare un calcio alla maledizione ed entrare nella leggenda.

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