[oblo_image id=”1″] 1994, Olimpiadi invernali di Lillehammer, Norvegia. E’ tutto pronto per la staffetta 4×10 km di sci di fondo. 200.000 spettatori, addetti ai lavori e atleti hanno tutti la stessa certezza: la vittoria non può sfuggire ai padroni di casa. Tutti convinti tranne quattro. Si chiamano Maurilio De Zolt, Marco Albarello, Giorgio Vanzetta, Silvio Fauner e hanno fatto un patto di ferro. Nessuno si deve schiodare dal norvegere di turno, nessuno deve perdere il contatto con l’avversario. Si parte. Maurilio De Zolt deve vedersela con l’imponente Silvertsen che cerca di fare subito il vuoto. Ma uno come De Zolt non lo stacchi. Lo chiamano il Grillo per quello stile saltellante, approssimativo. Non ti togli facilmente dai piedi uno che ha vinto la diffidenza dei critici ripetendo fin dagli inizi della carriera: “Gli altri saranno più alti, ma hanno due palle come me. Quindi me la gioco”. Non importa se ormai ha 44 anni e il volto scavato da mille battaglie sulla neve, uno come lui non ti lascia scappare compromettendo la gara dei compagni. Stringe i denti e termina la frazione nel gruppetto di testa.

Marco Albarello è un combattente nato, non importa se si tratta di vincere una gara o di farsi sentire dalla federazione. Quando una cosa gli sembra giusta lotta per ottenerla e ora sa che la cosa giusta è rimanere appiccicato al norvegese. Lo affianca quasi a intimargli che la medaglia d’oro non è così scontata; per la vittoria bisogna fare i conti con il quartetto azzurro.

Al terzo cambio tocca a Giorgio Vanzetta. Vanzetta ha perso medaglie che sembravano alla sua portata, ma quando c’è una staffetta puoi schierarlo senza paura: di sicuro non ti tradirà. Se corre da solo può smarrirsi ma quando sente la responsabilità della squadra trova energie nascoste. Anche stavolta completa la sua missione senza sbavature. Ormai la gara è delineata, con i padroni di casa sono rimasti solo italiani e finlandesi. Gli spettatori cominciano ad avere un pò di paura: credevano di poter fare già festa e invece è tutto ancora in discussione. Poi si tranquillizzano pensando che in ultima frazione toccherà a Bjorn Daelhi. Daelhi è una sorta di uomo bionico con un fisico impressionante, lo sguardo cattivo e la mentalità del vincente.

L’Italia ribatte con Silvio Fauner, il più giovane della comitiva con i suoi 25 anni. Lo chiamano il Genio perchè è uno pochi che sa ancora inventare qualcosa in uno sport dominato dallo strapotere fisica e dalla scientificità della preparazione. Fauner ha ben chiaro di aver di fronte un mito vivente ma è consapevole di avere una possibilità. Se si arriva in volata può giocarsi le sue carte. Prima però bisogna resistere per dieci chilometri. Il norvegese mette subito un ritmo impressionante, non vuole scherzi, al traguardo preferisce presentarsi senza compagnia. Il momento chiave è la salita a metà percorso. Tutti sanno che lì attaccherà Daelhi. A vederlo arrampicarsi su quella rampa con i quadricipiti che si contraggono, la bocca che si spalanca e le braccia che mulinano vorticosamente mette paura. Il finlandese cede di schianto, Fauner no. Soffre, ha una smorfia di dolore ma non cede un centimetro. E’ inutile che Daelhi provi a voltarsi dopo ogni accelerazione. Fauner è sempre lì.  La discesa serve solo a rilassare per un attimo i muscoli, ora si gioca tutto allo sprint. E’ quello che i quattro moschettieri azzurri sognavano ma adesso che il traguardo è vicino Fauner non deve farsi prendere dalla paura di vincere. Daelhi è impaziente, non pensava di presentarsi al rettilineo finale senza poter alzare le braccia al cielo. E’ nervoso e lancia la volata da lontano, troppo lontano. Fauner gli rimane in scia, ai 30 metri lo affianca, ai 10 lo supera.

E’ oro. Sullo stadio scende un silenzio glaciale. Per i norvegesi è un lutto sportivo, come per i brasiliani dopo aver perso in casa la Coppa del Mondo del ’50 con l’Uruguay.  Non hanno neanche la forza di applaudire come imporrebbe il fairplay scandinavo, ma per questa volta sono perdonati. La festa azzurra può iniziare anche senza di loro.

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