Changeling
di Clint Eastwood
U.S.A., 2008
Nomination: migliore attrice protagonista (Angelina Jolie), miglior fotografia (Tom Stern), miglior scenografia (James J. Murakami, Gary Fettis)

[oblo_image id=”6″]La condizione tipica dell’infanzia, quell’essere così ingenui, indifesi e sognatori, è uno dei temi pulsanti di Changeling. Non solo il rapimento in sé oppure l’atrocità dell’omicidio ma tutto il mondo della delicatissima età evolutiva prende forma nell’ultimo lavoro di Eastwood. Il bambino appare come una vittima in quell’atroce coinvolgimento nel mondo degli adulti, non solo per la brutalità isolata di un omicida psicopatico, ma anche per quei distorti meccanismi di corruzione e potere che, essendo così estranei alla sua esistenza, lo travolgono impietosamente.
C’è allora il ragazzino costretto a uccidere brutalmente, quello che per un sogno si finge un altro, partecipando al gioco perverso dei poliziotti, e di sfuggita compare anche il bambino-strillone, che annuncia la strage dei suoi coetanei. Tutte violenze e superficialità adulte che sembrano annidarsi pericolosamente attorno ad un universo tanto misterioso quanto inesorabilmente inaccessibile.
Il regista con intramontabile maestria e sensibilità traccia il profilo stesso di un’età meravigliosa, che così facilmente può trasformarsi in un’esperienza da incubo.

Il film solleva poi un’altra riflessione degna di nota, quella relativa alla ricerca delle prove fisiche per stabilire l’identità. La scelta di una storia vera, ambientata in un’epoca ove non era possibile isolare il DNA umano, sembra allora configurarsi quale soluzione strategica a tale riguardo. I metodi di riconoscimento di un tempo (ovvero quello degli anni Trenta) appaio infatti deboli agli occhi di un pubblico contemporaneo,[oblo_image id=”3″] eppure alla fine risultano efficaci ed eludono quella tecnica, da cui oggi ci si sente così dipendenti. È il recupero di quella percezione visiva che, come ha dimostrato Gianni Canova in L’alieno e il pipistrello, il film contemporaneo aveva dichiarato fallibile e tramontata? Forse la determinazione nel negare il riconoscimento visivo (come accade appunto per il falso Walter Collins) riabilita la vista, nel suo ruolo di orientamento vitale?

In realtà, non si assiste ad un vero recupero dell’occhio che, pur affermandosi quale esigenza primaria, non riacquista certo la sua centralità. In Changeling, infatti, la ricerca dell’identità, se non vuole fidarsi della sola percezione, già peraltro lampante (Christine si accorge subito che non è suo figlio il bambino sceso dal treno), conduce fortemente a quel “senso”, privo di organo specifico, che ha sede nelle relazioni umane e in particolare in quella intimissima tra madre e bambino. Una qualità, questa, che è possibile chiamare intuizione o “senso materno” e che, brutalmente aggredita e offesa dalla farsesca messa in scena della polizia (soprattutto dalle parole del Dott. Tarr), urla disperatamente la sua verità e la propria esistenza. Ed ha successo. Infatti, questo insinuarsi sordido dell’apparenza, della bieca spettacolarità, che prosegue fino al tentativo di elettroshock (ovvero la minaccia più profonda nei confronti della volontà stessa), comincia lentamente a crollare, lasciando riemergere le pulsazione emotive della protagonista come quelle degli spettatori. Insieme alla speranza, quindi, si riaccende una verità sentita e conosciuta, che deriva proprio da quell’istinto (di matrice emotiva) palesemente tacciato di sviare l’obiettività.

[oblo_image id=”2″]Infine, non si può non ricordare come il volto di Angelina Jolie rimane l’impressione più forte, sia visivamente sia emotivamente, nella memoria dello spettatore. Su quell’espressione percorribile più volte in piani ravvicinati, scopriamo sentimenti di dolore, di disperazione, di incredulità fino a punte di radiosa speranza ma insieme cogliamo un velo di pietà nei confronti dell’assassino (soprattutto nella scena dell’esecuzione). Cogliamo quell’accenno di comprensione verso l’animo umano, che corrisponde, in fondo, a quel desiderio di indagare, a tutti i costi, anche le motivazioni dei gesti più estremi. E quel volto, produttore di senso e appellato al puro e solo potere dell’immagine (come giustamente sottolinea Chiara Borroni, in Cineforum, n. 480), non può che essere quel terreno che fa da sfondo all’intera vicenda, il paesaggio su cui consumare la tragedia e insieme riaccendere la speranza, quale impellente necessità vitale.

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