Il curioso caso di Benjamin Button
di David Fincher
Usa, 2008
Nomination: miglior film, miglior regia (David Fincher), miglior attore protagonista (Brad Pitt), migliore attrice non protagonista (Taraji P. Henson), Migliori costumi (Jacqueline West) Miglior sceneggiatura non originale: (Eric Roth e Robin Swicord) Miglior fotografia (Claudio Miranda) Miglior montaggio (Angus Wall e Kirk Baxter) Miglior scenografia (Donald Graham Burt e Victor J. Zolfo ) Miglior trucco (Greg Cannom) Migliori effetti speciali (Eric Barba e Edson Williams) Miglior colonna sonora: (Alexandre Desplat) Miglior sonoro: (David Parker e Michael Semanick)

Il tempo, lo dicono anche i fisici, è un concetto relativo. Una convenzione che l’uomo ha creato per misurare lo scorrere della sua vita, per dare un senso al suo invecchiare. E allora, c’è da chiedersi che succederebbe se quello stesso tempo non cambiasse unità di misura,

Tratto da un racconto di Francis Scott Fitzgerald rimasto per anni nel cassetto di più di un regista per evidenti difficoltà di natura realizzativa, “Il curioso caso di Benjamin Button” usa tutte le moderne tecnologie digitali per consentire a David Fincher (e a Brad Pitt – Benjamin) di portare sullo schermo la storia di un uomo nato vecchio e morto neonato il cui tempo è scandito da due orologi: quello dell’esperienza che scorre nel senso “giusto”, e quello del corpo che viaggia nel senso contrario. Un’esperienza che oseremmo dire “unica”, straordinaria sia nella meraviglia sia nel dolore di dover vivere a metà un amore provato per tutta una vita. Per il breve periodo concesso da un incrocio di esistenze compatibile solo per pochi anni tra il suo essere uomo adulto e l’essere donna adulta di Daisy (Cate Blanchett, grazie di esistere), che da bambina amica di uno strano vecchietto si troverà anziana ad accudire un bambino che si spegne a poco a poco tra amnesie e demenze senili. E che dal letto di morte racconterà alla figlia la strana storia di una vita vissuta alla rovescia.

Ci sono film che portano impresso sulla pellicola, come un marchio di fabbrica, la certificazione “Oscar”. Come Via col Vento, Ben Hur, o in tempi più recenti il Titanic di Cameron o il terzo Signore degli Anelli di Peter Jackson. E poi ci sono film fatti su misura per la statuetta: come l’irrituale, per i fratelli Coen, “Non è un paese per vecchi” che ha trionfato l’anno scorso. Film che sì, hanno il timbro del regista che li firma, ma vengono equipaggiati come una corazzata in caccia di nomination.

Il nostro “Benjamin Button” non sembra sfuggire alla regola. Chi conosce la premiata ditta Fincher-Pitt non può dimenticare Seven, o Fight Club. Due capolavori, ma con un registro troppo “indipendente” e poco gradito alla giuria dell’Academy.

Tradimento della propria cifra narrativa? Crescita stilistica inevitabile? Chi lo sa. Certo è che il risultato non delude. Brad Pitt, che recita per la maggior parte del film solo con gli occhi, rischia di strappare un Oscar come protagonista che non starebbe male nel suo palmares. E poi, ci sono almeno due scene in cui Fincher dimostra di avere una capacità di raccontare il tempo, lo spazio e, soprattutto, le circostanze che determinano la vita di ognuno di noi che da sola vale l’Oscar. E le tre ore che condensano novant’anni di storia americana, dalla fine della Grande Guerra all’uragano Katrina, immergendo la favola di Benjamin nell’evolversi reale e concreto di una società vista attraverso gli occhi di uno spettatore fuori del tempo, passano come un soffio di vita. In quale direzione vada quel soffio, decidetelo voi.

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