[oblo_image id=”1″] C’è una storia così bella che se Sylvester Stallone avesse avuto modo di conoscerla per tempo forse avrebbe rivisitato la sceneggiatura di Fuga per la vittoria. È la storia di una partita che i giocatori non volevano giocare, di un campione che segnò sapendo che con quel gol stava dando l’addio al calcio. E alla vita. Matthias Sindelar è stato il Messi degli anni ’30. Mingherlino, fragile, insignificante alla vista. Glielo dicono a inizio carriera: «Il primo difensore che ti prende, ti spezza». Tutto vero, ma prima bisognava prenderlo e non era così facile. Gli affibbiano il soprannome Cartavelina, lo conserverà per tutta la carriera. Nobilitandolo. Ha una leggerezza col pallone tra i piedi che non si era mai vista prima e che non si sarebbe più vista dopo. Accarezza il cuoio quasi con devozione, salta gli avversari con finte appena accennate, evita i contrasti passando la palla con un istante d’anticipo. Essenziale, delizioso nella sua semplicità, legge il gioco come se potesse osservare dall’alto la posizione di compagni e avversari per poter scegliere il più indicato a ricevere l’assist smarcante. Vittorio Pozzo, il trionfale condottiero della nazionale azzurra di quell’epoca, riconosce in lui un qualcosa di soprannaturale: «Lo fissavo prima della partita: non aveva muscoli, non mostrava consistenza. Ma con il pallone tra i piedi si trasformava: era artistico nell’eludere l’avversario, era dotato di un’intelligenza che sfiorava la preveggenza. Pensavo di marcarlo con Monti, ma convincerlo non era facile. Già odiava tutti i danubiani mettendoli in un unico mucchio, ma aveva Sindelar in particolar uggia: temeva che quelle finte infinite gli facessero perdere le staffe».
La sua nazionale è l’Austria, non una formazione minore come adesso. Allora era il Wunderteam: una squadra da favola diretta da Hugo Meisl, così gloriosa da meritarsi l’invito per un’amichevole contro i maestri inglesi, a quel tempo tanto spocchiosi da disdegnare abitualmente gli impegni internazionali. Pur non essendoci immagini o video, la sfida è stata tramandata oralmente di generazione in generazione perché tutti coloro che erano allo stadio hanno giurato di aver visto quel giorno il gol più bello mai realizzato su un campo di calcio.
Una sorta di premonizione del capolavoro dipinto da Maradona cinquant’anni più tardi, sempre contro i sudditi della regina. Di voce in voce, la cronaca di quella rete si arricchisce di particolari ma la sostanza è sempre la stessa: Sindelar prende palla a centrocampo e comincia a saltare un avversario dopo l’altro dribblando chiunque gli vada incontro fino a depositare il pallone in rete. L’arbitro John Langenus racconta di essere rimasto paralizzato da quell’azione, dalla magia con cui Cartavelina controllava il pallone ridicolizzando ogni difensore inglese, vanificando ogni tentativo della retroguardia, lasciando di stucco il portiere.
Una squadra così, con un giocatore così, è la favorita per i mondiali del 1938. Ma a quei mondiali Sindelar non parteciperà. Perché? Non c’era più la nazionale austriaca. E perché non c’era la nazionale austriaca? Semplice, perché non c’era più l’Austria. Anschluss: la Germania nazista annette l’Austria e organizza una partita amichevole per rendere solenne il momento anche sul piano sportivo.
Dopo sarebbe esistita soltanto una squadra da esibire come orgoglio del regime. Per uno che fa il calciatore e che non ha voglia di immischiarsi con ciò che succede fuori dal campo, si tratterebbe soltanto di cambiare maglia, di trovare l’intesa con i nuovi compagni e di provare a vincere i mondiali. In fondo, è sempre stato quello il sogno di Sindelar, fin da bambino. Tutto apparentemente facile. Forse troppo. E così decide che non giocherà con una maglia fregiata da una svastica. Gli rimane una gara, quella che per gli altri è una festa e che per quelli come lui è un funerale con tanto di gerarchi nazisti in bella mostra sugli spalti a celebrare l’inglobamento anche sportivo nella Grande Germania.
Prima della gara, agli austriaci viene dettato una sorta di vademecum. Non devono vincere e qualora
qualcuno sia così indisponente da segnare, è obbligatorio il saluto riparatore con la mano alta verso il Führer. Sono qualcosa di più di semplici indicazioni, assomigliano a comandi. A Sindelar non interessano gesti clamorosi; si accontenta di fare ciò che sente come giusto. Con il pallone tra i piedi non gradisce ghirigori se non finalizzati a smarcare un compagno meglio posizionato; a parole è misurato, ma non avaro. Non aizza le folle con proclami, ma non nega a nessuno una pacca sulla spalla o una stretta di mano.
Alla vigilia della partita, si ferma per salutare l’ex presidente dell’Austria Vienna, nonostante gli sia stato intimato di non farlo: «Signor Schwarz, il nuovo capo dell’Austria Vienna ci ha chiesto di non rivolgerle più la parola. Ma io non posso non salutarla tutte le volte che avrò la fortuna di incontrarla».
Il Signor Schwarz era di origini ebraiche: tanto bastava per mettere fine alla sua carriera da dirigente. Probabilmente, a quelle condizioni, non gli sarebbe neanche interessato proseguire. L’Austria Vienna, il club che aveva dominato la scena internazionale negli anni ’30, aggiudicandosi a ripetizione la Coppa Europa, l’antenata della Champions League, non esisteva più. Il nome era stato mutuato in Ostmark, provincia orientale. Abbozza un sorriso di gratitudine a Sindelar senza rispondere: cosa avrebbe potuto dirgli? Il suo destino era già segnato e aveva capito che anche il suo campione non sarebbe durato in quel contesto.
Se si fosse trattato di una partita, lo avrebbe sostituito per proteggerlo. Ma lì non poteva. Lo guarda ancora una volta, con la sinistra convinzione che sarà l’ultima. Quel 3 Aprile 1938, lo stadio Prater è gremito, anche se molti di quelli che sono sugli spalti non hanno voglia di gioire. Persino i giocatori appaiono bloccati, corrono con la stessa rassegnazione di uno stressato impiegato di uno scalcinato ufficio. Giocano a calcio come se stessero timbrando un cartellino, archiviando una pratica, sbrigando una formalità.
La partita si conduce tristemente verso il pareggio quando Sindelar si ricorda che dopotutto il calcio è sempre calcio. E per un’ultima volta fa quello che sa fare meglio. Elude i difensori, guarda il portiere con la coda dell’occhio e lo lascia immobile con un tiro che assomiglia a una pennellata. Elegante, morbido, irresistibile. Avrebbe ancora una possibilità: basterebbe girarsi verso la tribuna e alzare il braccio. Ma il saluto nazista non è un saluto qualunque. E allora decide di esultare come esulta chi segna un gol qualunque. Con gioia, inscenando una sorta di danza per regalarsi almeno un attimo di libertà.
Con quella partita non finisce soltanto la carriera di un campione, si chiude anche la vita di un austriaco che come tanti non accetta di far par parte di quel sistema. A volte funziona così: sogni qualcosa da quando sei bambino e poi arriva la Storia che ti toglie la voglia di realizzare quel sogno. Ti annulla: ti chiedi se convenga andare avanti e non trovi risposta.
Rifiuta la convocazione per i mondiali del 1938 senza alzare troppo la voce, nonostante molti dei suoi ex compagni abbiano accettato – anche solo per paura – il passaggio alla Germania. L’allenatore della rappresentativa austro-tedesca, Sepp Horberger, prova a convincerlo, sentendosi replicare dal campione che non può rispondere alla convocazione per il riacutizzarsi di un vecchio problema al ginocchio. È una giustificazione credibile per l’opinione pubblica perché Sindelar è ricordato anche per essere stato tra i primi ad aver subito un’operazione per la ricostruzione del menisco: un infortunio a 22 anni sembrava invitarlo a cercarsi qualcos’altro da fare nella vita. Un intervento pionieristico – la tecnica Sindelar è ancora citata in bella vista nei libri di medicina sportiva – e un’indomabile determinazione nel sottoporsi alla fisioterapia hanno regalato al calcio il piacere di ammirare il suo genio. Alla vigilia di quei mondiali, comunque, le ginocchia di Cartavelina sono assolutamente integre: anche l’allenatore capisce che le ragioni del rifiuto sono da ricercare altrove. Ma non si intromette: non può contare su quello che rimane il miglior giocatore al mondo ma ha la delicatezza di mettere in secondo piano le proprie esigenze tecniche appoggiando pubblicamente la tesi del fuoriclasse per evitargli noie con gli organi federali. Sa che rinunciandoci non vincerà quei mondiali; ogni tanto, però, il tempo è galantuomo e sedici anni più tardi il titolo iridato arriverà comunque.
Senza Sindelar, che non si ritira solo dal calcio, si dimette anche dalla vita. Prima di suicidarsi, Cesare Pavese ha lasciato un biglietto: «Non scriverò più» perché la sovrapposizione tra la penna e la vita era per lui totale. Anche per Sindelar rifiutarsi di giocare a calcio equivale a fuggire da un’esistenza che non gli appartiene o quanto meno, che non gli interessa più. Il suo corpo viene ritrovato il 29 Gennaio 1939. Gli inquirenti si affrettano a chiudere il caso come “incidente” adducendo come motivazione un avvelenamento da monossido di carbonio: tuttavia, è una tesi che non ha mai convinto nessuno. Sindelar era di origini ebree così come la ragazza – l’italiana Camilla Castagnola – che lo accompagna negli ultimi mesi: forse è stato suicidio, più probabilmente aspettava soltanto che qualcuno facesse apparire tale il suo congedo. Ai funerali partecipano 40.000 austriaci: è il commiato di un popolo a un campione dal fisico mediocre ma dalle idee chiare. Amato come nessun altro “danubiano” per quello che faceva in campo e fuori dal campo.
(Da Un calcio alla Storia, Galassia Editore 2012)

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