A 40 anni si dice che la vita cominci. Quella di un calciatore solitamente è già finita da un pezzo. Per fortuna, ci sono le eccezioni e si può celebrare l’entrata negli anta di Francesco Totti con la rassicurante certezza che lo vedremo ancora accarezzare un pallone.
I numeri raccontano di un campione infinito che ha tagliato il traguardo delle 650 presenze in A e che ha messo il sigillo su 250 perle. Ma i numeri non dicono tutto e, soprattutto, non svelano il valore di un campione che probabilmente raggiungerà l’unanimità dei consensi soltanto quando appenderà le scarpe al chiodo. Troppo identificato con una città, anzi con “la città”, per non lasciare spazio a controversie. Roma è ambivalente per natura: santa e corrotta, universale e provinciale, ispiratrice e distruttrice. Chi ne incarna l’anima, non può puntare al plebiscito. Ma Totti sa che dividere è il destino con i grandi, soprattutto in Italia. Era avvenuto lo stesso con Rivera, Baggio e Del Piero.
Totti non va santificato, non c’è bisogno. Ha sbagliato, sputato, calpestato, reagito, offeso. Ma ha sempre messo la faccia, senza cercare sconti, sanatorie. Ha pagato per ogni errore, si è rialzato dopo ogni caduta, ha accettato le conseguenze delle sue scelte. E questo è il suo insegnamento più importante. Per quanto riguarda il campo, assaporiamo ogni gemma che ancora regalerà sapendo che quello che ha fato basta e avanza per consacrarlo alla leggenda. E le leggende non possono essere misurate secondo i parametri tradizionali: non si pesano in base ai trofei alzati, alla forza in termini assoluti o alla longevità, ma solo ed esclusivamente per la loro capacità di essere unici, irripetibili. Il calcio è un’emozione: c’è la possibilità che in futuro arrivi qualcuno che giochi meglio di Totti, ma non c’è neppure una possibilità su un milione che nasca qualcuno che giochi come Totti Francesco, made in Roma.
