[oblo_image id=”1″] Nel ciclismo non esistono i bluff. Vince sempre il più forte perché nessun arbitro sa essere così rigoroso ed equo come 3.400 km. Il Giro d’Italia ha incoronato il russo Denis Menchov, 31 anni con due vittoria alla Vuelta a nobilitare un palmares importante ma non ancora esaltante. Un successo accolto per troppe tappe con diffidenza, quasi con fastidio da chi lo accusa di non favorire lo spettacolo adagiandosi su una tattica difensiva al limite del catenaccio. Insinuazioni da provinciali, niente di più. Perché a guardare bene la vittoria di Menchov è limpida, senza repliche, struggente. Bella nella tradizione del ciclismo dove si fondono fatica e trionfo, sofferenza e liberazione, dolore da ruzzoloni sull’asfalto e tripudio di braccia alzate al cielo. Come nell’ultimo atto degno di un copione cinematografico dove una rovinosa caduta all’ultimo chilometro ha fatto vacillare la maglia rosa alle porte del paradiso. Ma Menchov si è rialzato e ha resistito fino all’ultima pedalata. Ecco la parola chiave: resistenza. Menchov ha resistito alla mancanza di una squadra all’altezza, agli attacchi generosi di Danilo Di Luca, alle forature, alle pressioni, alle gufate di chi pretendeva un successo tricolore per l’edizione 2009 della corsa rosa. Ed invece il re è straniero: è ora di incoronarlo, non di svilirlo. Non si è incollato alla ruota di altri per ostruzionismo, ma per necessità. Non potendo marcare da solo tutti i potenziali avversari si è concentrato sul più pericoloso. Non ha regalato arabeschi o soluzioni estemporanee perché non poteva permettersi di dissipare energie per il superfluo. Ha vinto con le gambe che lo hanno sorretto senza mai tradirlo nelle 21 tappe, con il cuore che lo ha portato a reagire ai tiri mancini della sorte e soprattutto con la testa. Una tattica semplice ma snervante per i rivali. Di Luca si è illuso di poterlo staccare: accelerava e si voltava per scorgere nel russo un segno di cedimento. Una speranza che si è illanguidita lentamente fino a spegnersi dopo l’ultima salita al Vesuvio. Ogni attacco è rimbalzato contro un muro di gomma, nessuno scatto è riuscito ad allontanare l’ombra della maglia rosa dalla propria ruota. L’abruzzese ha firmato la resa con la solita signorilità dribblando i processi sulla condotta di gara. E ha ragione: non ha perso perché ha commesso errori. Così come hanno fatto tutto il possibile Franco Pelizotti e Ivan Basso, alfieri della Liquigas relegati alle piazze d’onore. Hanno poco da rimproverarsi, l’unica sfortuna è di aver trovato qualcuno più forte sulla strada verso Roma. E allora come dicono i francesi: “Chapeau, monsieur Menchov”, il Giro è tutto suo.

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