Ci sono momenti che lasciano il segno. Nella vita di un uomo, in qella di un ragazzo così come in quella di un bambino. Ci sono immagini che, a distanza di anni, fanno ancora venire i brividi. Ci sono notizie che, ad un certo punto, è lecito aspettarsi ma che non vorresti mai sentire.

L’11 luglio del 1982 ero poco più che un bambino e scorazzavo con mamma e papà per le vie di Lignano Sabbiadoro; il tricolore in mano ed una felicità mai provata. I tedeschi battevano le mani con le lacrime agli occhi, noi italiani, sempre con le lacrime agli occhi, cantavamo, strillavamo e urlavamo i nomi di quegli “eroi” che avevano appena portato a casa un mondiale sul quale nessuno avrebbe mai scommesso una lira.

Nel luglio del 1990, otto anni e due mondiali dopo, non ero più un bambino ma un giovane giornalista alle prime armi che “faceva la posta” ad un simpatico pensionato friulano intento a controllare i lavori di rifinitura della sua casetta lignanese.

“Camicia a righe bianche e azzurre, pantaloni grigi, pantofole e l’immancabile pipa…”. Iniziava così la mia prima vera intervista sportiva. Ed iniziavo “alla grande”, iniziavo con l’artefice di quel fantastico girovagare notturno di 8 anni prima.

Enzo Bearzot, già al tempo mito del calcio azzurro, mi aspettava sul terrazzino della sua villetta con vista sulla laguna. Lui, l’uomo che aveva vinto non un mondiale qualsiasi ma “il” mondiale, quello che portava l’Italia al livello del Brasile e le ridava l’immagine gloriosa compromessa dal calcio scommesse. Lui, l’uomo che aveva guidato gli azzurri quanto nessuno mai (neppure ora!). Lui, l’inventore del “silenzio stampa”, l’uomo che seppe addossarsi tutte le responsabilità per difendere i suoi ragazzi, come farebbe un padre, come faceva un mister.

Lui, che mi incuteva un tantinello di timore… Lui, con il quale i  minuti volarono tra battute spiritose ed un fiume di parole che, solo in minima parte finirono per arricchire il mio “pezzo”.

Non fu l’ultima volta che ci vedemmo. La mia “puntatina” a casa Bearzot, foss’anche solo per un saluto, diventò una meta fissa delle mie estati lignanesi. Era una simpatia reciproca che sfociava spesso in sfottò innocui tra un piemontese juventino ed un friulano D.O.C. dal sangue, almeno per me, un po’ troppo granata!

Ma andar d’accordo con il “vecio” era facile. Era un uomo d’altri tempi, una persona educata e per nulla arrogante o presuntuosa. Era Enzo Bearzot sia che parlasse con un “pivello” sia che fosse davanti ad un “mostro sacro” come Gianni Brera.

Quella del ’90, come ho scritto poche righe più su, fu la mia prima intervista importante. A quella ne seguirono tantissime altre ma in nessuna di esse mi sono mai trovato davanti ad un interlocutore così carismatico, così Uomo e così poco personaggio.

Ci sono notizie che lasciano il segno, notizie che puoi aspettarti ma che non vorresti mai sentire. Oggi, una di queste, diceva che Enzo Bearzot non c’è più.

Ciao Enzo e grazie di tutto!

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